“Senza Titolo” – Silvano Matkovich

Mercoledì 20 marzo 2013

Silvano Matkovich nasce nel 1960 vicino a Parenzo. Nel 1963 i genitori devono lasciare l’Istria e lo portano con sé. La famiglia sosta per qualche tempo presso la risiera di S. Sabba, all’epoca adattata a luogo di transito, prima di raggiungere il campo profughi di Capua. Poi, nel 1965, il ritorno e la definitiva sistemazione a Trieste. Finita la scuola media, Silvano trova impiego presso l’ospedale, dove tuttora presta servizio. Scapolo, vive da solo in un appartamento arredato con mobilio di gusto classico, da lui stesso costruito. Lo incontro qui, con un sottofondo musicale discreto (scoprirò che ne sente il bisogno anche mentre lavora al computer per elaborare le foto).

Allora, Silvano, a quando risale il primo ricordo di una macchina fotografica?

Avevo quindici anni. Mio padre, che lavorava al porto, si procurò una Zenit sbarcata da una nave russa. Era un oggetto affascinante ma di qualità scadente. A vent’anni mi comprai una Nikon; avevo una storia con una ragazza che amava fotografare, quando la storia finì feci l’acquisto quasi per ripicca. Ero un autodidatta e fotografavo male. I miei colleghi però, sapendo di questa mia passione, cominciarono ad affidarmi i servizi dei loro matrimoni, più per risparmiare che per fiducia nel mio talento! Mi buttai e fu un’ottima palestra di tecnica. Verso i trent’anni conobbi delle persone appassionate d’arte. Cominciò un periodo molto stimolante: visite a musei e mostre di varia natura con relative discussioni di approfondimento. E anche un atteggiamento più consapevole nei confronti della fotografia. Cominciai a guardare le foto dei grandi autori con maggiore interesse: cercavo di capire come riuscissero a esprimersi compiutamente, sia sul piano tecnico sia su quello espressivo. Però il risultato del mio lavoro non mi soddisfaceva, tanto che abbandonai quasi completamente la fotografia per tornare a giocare a scacchi. Fu proprio un membro del Circolo Fincantieri-Wärtsilä degli scacchi, Giuseppe, socio anche del Circolo Fotografico, a propormi di venire a dare un’occhiata alla sezione foto. Entrato nel Circolo mi si sono aperte nuove prospettive. Ho molta gratitudine per questo ambiente; mi ha insegnato tantissimo, dandomi consapevolezza dei miei mezzi e incrementando la mia fiducia di poter continuare ad evolvere. Ho scoperto la forma portfolio, che prima non conoscevo; infatti cercavo di condensare ciò che avevo da dire in un’unica immagine.

Che cosa rappresenta per te la fotografia e come realizzi le tue foto?

È un modo per cercare di esprimere cose che non saprei dire altrimenti. A volte cerco di dar forma a un’intuizione con un’immagine; altre volte cerco di riprodurre sulla carta le sensazioni che mi colpiscono mentre guardo; ma in fondo intuizioni e sensazioni mi vengono sempre dalla pancia. Poi penso che qualsiasi foto, quando viene vista, viva un po’ di vita propria. Chi la guarda la usa per sé e vi scopre cose alle quali l’autore non aveva neanche pensato. Per questo da qualche tempo ho rinunciato a dare un titolo ai miei lavori, preferisco che chi osserva non sia condotto verso una direzione predefinita. E infatti trovo interessante l’autoritratto perché mi permette di scoprire -attraverso gli occhi degli altri- aspetti di me stesso che non conosco.

Quanto lavoro c’è in una tua foto?

Molto, curo tutte le fasi di lavorazione, dalla ripresa alla stampa. Secondo me la materia di un fotografo -cioè quello che si vede dentro l’obiettivo- è di norma sovrabbondante. Ecco perché, almeno per me, è inevitabile un processo di lavorazione e di sottrazione del superfluo. Infine la fase della stampa mi dà il gusto di toccare e di manipolare la carta; è una fase artigianale, più sensoriale, quella che dà un aspetto fisico e materico al mio lavoro. Stampo esclusivamente in BN, perché mi sembra che vada dritto all’essenza delle cose; percepisco il colore come un disturbo, qualcosa di cui non sento la necessità.

Ancora un’ultima domanda: quali soggetti preferisci fotografare?

Quelli che per qualche ragione trovo misteriosi.

Roberta REGGIANI

 

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